Le abitudini alimentari costituiscono uno degli elementi fondamentali dello stile di vita di ciascuno di noi e sono in grado di influenzarlo in senso sia positivo sia negativo, divenendo uno dei maggiori fattori di rischio per la salute.

Dott. Renato Carignola, Dottoressa Valeria Data, Dottoressa Erika Montabone
Scleroderma Unit – SSD Day Hospital Internistico Centralizzato
SCDU Medicina Interna I – AOU San Luigi Gonzaga di Orbassano (TO)
 
L’attenzione a una corretta alimentazione risale ai tempi antichi; già nei papiri medici egizi si trovano consigli e indicazioni su questo tema: “Non ti abbuffare di cibo: chi lo fa avrà la vita abbreviata”, oppure “E’ gran lode dell’uomo saggio contenersi nel mangiare” sono massime di assoluta modernità.
Le abitudini alimentari costituiscono uno degli elementi fondamentali dello stile di vita di ciascuno di noi e sono in grado di influenzarlo in senso sia positivo sia negativo, divenendo uno dei maggiori fattori di rischio per la salute.
Anche nelle patologie immunologiche si sta prestando sempre più attenzione al rapporto tra alimentazione e malattia. Sembrerebbe infatti che le modifiche alimentari possano alterare l’attività del sistema immunitario, modulandolo attraverso vie molteplici; le più recentemente studiate evidenziano il ruolo del c.d. “microbiota intestinale” e delle adipochine (citochine del tessuto adiposo), nonché il loro potenziale effetto favorente l’insorgenza di specifiche malattie autoimmuni.
Non vi è però chiarezza su quali siano i cambiamenti alimentari in grado di facilitare questi processi. In generale, si attribuisce importanza alla malnutrizione, intesa quale indicatore omnicomprensivo di alterazione alimentare sia in senso qualitativo (tipologia di alimenti introdotti) sia quantitativo (difetto o eccesso alimentare), piuttosto che alla denutrizione, più limitatamente riferita al deficit calorico o alla ridotta introduzione di uno o più elementi essenziali della dieta (per esempio proteine, vitamine, minerali, oligoelementi).
Nella sclerosi sistemica i lavori scientifici che hanno studiato il rapporto della malattia con lo stato nutrizionale sono pochi e quasi tutti focalizzati sull’aspetto della denutrizione; solamente tre studi dispongono di una ampia numerosità campionaria; i parametri indagati non sono però omogenei e le conclusioni dei diversi autori risultano spesso difficilmente confrontabili tra loro.
Attualmente si ritiene che gli sclerodermici affetti da malnutrizione siano compresi tra il 15 e il 58%, a seconda della metodica utilizzata per la diagnosi (in genere questionari valutativi dello stato
nutrizionale o tecniche strumentali come la bioimpedenziometria).
La causa dei quadri di malnutrizione in questi pazienti può essere ricercata nel coinvolgimento gastroenterico di malattia stessa, oppure essere secondaria agli aspetti psicocomportamentali che la sclerosi sistemica può determinare in quanto condizione cronica e invalidante.
E’ noto che oltre il 90% degli sclerodermici presenta un interessamento del sistema gastroenterico; può essere colpito qualsiasi tratto compreso tra la bocca e l’ano, con possibili alterazioni dei processi di digestione, di motilità, di assorbimento, di espulsione.
La patogenesi di tali alterazioni non è perfettamente conosciuta. È stato ipotizzato che le modifiche osservate siano per certi versi simili a quelle del processo di fibrosi cutanea. Si assisterebbe cioè a fasi diverse, caratterizzate da alterazione vascolare (con danno della permeabilità intestinale), disfunzione del sistema autonomico (forse per autoanticorpi in grado di modificare i processi di peristalsi intestinale), atrofia muscolare e infine fibrosi, la condizione di danno vero e proprio.
Il ruolo degli aspetti psicocomportamentali è di recente valorizzazione. Le alterazioni del tono dell’umore, soprattutto per quanto attiene ad ansia e depressione, sembrerebbero rappresentare importanti fattori di rischio per lo sviluppo di malnutrizione.
Gli sclerodermici presentano infatti ansia nel 49-80% dei soggetti, in una percentuale quindi ben superiore a quella della media della popolazione italiana di pari età (stimata a meno del 10%).
Anche gli aspetti depressivi sono piuttosto frequenti in questi pazienti: la depressione maggiore si caratterizza per una prevalenza variabile tra il 17% e il 69% e i pazienti ospedalizzati sono quelli maggiormente colpiti e più sintomatici. È interessante sottolineare che questo dato epidemiologico è superiore non solo a quello della popolazione generale (per la quale la depressione è stimata avere una prevalenza compresa nel range 2-9%), ma anche a quello che caratterizza altre patologie croniche altrettanto invalidanti (prevalenza stimata inferiore al 5%).
E’ stato ipotizzato che il dolore, la fatica fisica, la disabilità, i cambiamenti corporei determinati dalla malattia siano alla base dell’aumentata prevalenza della depressione negli sclerodermici. E’ noto che ansia e depressione sono in grado di alterare lo stimolo dell’appetito (sia aumentandolo sia diminuendolo). 
Nei pazienti sclerodermici queste condizioni potrebbero modificare il senso di fame e favorire nel lungo periodo la comparsa di malnutrizione. Inoltre, l’influenza sullo svolgimento delle attività quotidiane (quali la cura del sé, comprendendo l’acquisto degli alimenti, la loro preparazione e la cucina) si riverberebbe negativamente anche sull’alimentazione.
Ancora, il coinvolgimento cutaneo da malattia con la ridotta capacità di prensione e la presenza di ulcere digitali costituisce una ulteriore importante limitazione al cucinare e al mangiare, con ovvie ricadute sullo stato nutrizionale. In sintesi, questi descritti sono orientamenti in via di sviluppo che confermano l’indispensabilità dell’approccio multidisciplinare al paziente sclerodermico. 
Il “team dedicato” dovrebbe affiancare ai vari specialisti non solo il gastroenterologo ma anche lo psicologo e il nutrizionista, affinché ogni singolo paziente possa disporre di indicazioni personalizzate rispetto a queste tematiche. L’obiettivo finale sarebbe quello di raggiungere, se del caso, e di mantenere nel tempo un ottimale “performance status”, condizione indispensabile per favorire il miglior controllo organico di malattia.