Peter Drucker, economista e saggista diceva: “La cosa più importante nella comunicazione è ascoltare ciò che non viene detto”.

 

L’ascolto è l’arte dello stare a sentire attentamente, del “prestare orecchio”. Ascoltatore è chi ascolta non in modo superficiale. Nell’ascolto c’è il collegamento tra orecchio e neuroni di come noi assimiliamo stimoli acustici e poi c’è la componente psicologica, che è l’apprendimento attraverso i cinque sensi. Sentire non è lo stesso che ascoltare, infatti l’ascolto attivo è caratterizzato da un atto volontario grazie al quale si decide di ascoltare attraverso l’attenzione, la sensibilità e l’intelligenza di cui siamo dotati.

Più che un dono, ascoltare è un’arte da imparare, che permette di instaurare relazioni di fiducia con i pazienti e allo stesso tempo migliorare noi stessi come medici. É un’attenta e partecipativa attenzione al soggetto, con la volontà di cogliere non solo le parole, ma anche le emozioni, i timori, le intenzioni, entrando in empatia con il paziente, lasciando grande spazio alla sua visione. L’ascolto è presenza, interesse, empatia: lo sapeva bene Goethe che disse “Parlare è un bisogno, ascoltare è un’arte”. Ascoltare richiede quindi uno sforzo, quello di tenere a freno il desiderio di parlare del medico che vorrebbe subito formulare diagnosi e prescrivere terapie. L’ascolto non consiste semplicemente nel tacere, nel lasciar parlare il paziente, significa invece essere disponibili al paziente.

L’ascolto è la prima attività comunicativa necessaria per ottenere la fiducia dei nostri pazienti. In ambito professionale le cause più comuni che inibiscono la capacità di ascolto riguardano spesso il poco tempo a disposizione del medico e la forte concentrazione sugli obiettivi che cerchiamo di raggiungere, troppo spesso dimenticandoci che è il paziente stesso a darci le informazioni fondamentali ad ottenere un adeguato controllo della patologia. Sono, infatti, proprio i pazienti che riescono ad evidenziare i punti cruciali (effetti collaterali o mancanza di efficacia) che vanno modificati nella terapia.

Ascoltare attivamente consente di metterci nei panni dell’altro, riconoscere e accettare il suo punto di vista, le sue emozioni, in totale assenza di giudizio e anche se il verbo deriva dal latino “auris” (orecchio), non potremo parlare di «ascolto attivo» se ci limitiamo semplicemente a sentire le parole del nostro paziente: dovremo aggiungere le informazioni che sapremo ricevere anche attraverso la vista, per cogliere tutti i segnali di congruenza o incongruenza del messaggio. Per stimolare la nostra capacità di ascolto è importante evitare distrazioni esogene (il telefono che squilla, l’infermiere che entra, il collega che chiama etc) soprattutto se mentre siamo di fronte al paziente siamo presi dalla «sindrome dello sguardo basso». Troppo spesso infatti siamo occupati nello scrivere al computer, dimenticandoci che parlare con il paziente significa anche guardarlo.

 

Ci si mette in condizione di “ascolto efficace” provando a mettersi “nei panni dell’altro”, cercando di entrare nel punto di vista del nostro paziente e comunque condividendo, per quello che è umanamente possibile, le sensazioni che manifesta, come il dolore, l’incomprensione nella società in cui vive, nonché problemi di adattamento all’ambiente sociale causate dalla malattia stessa. Cercare di comprendere e condividere tali problemi aiuta ad instaurare un rapporto empatico con il paziente ed è fondamentale per ottenere  un’aderenza alla terapia, soprattutto nelle patologie croniche dove i farmaci vanno assunti per anni.

 

Inoltre, la capacità di saper porre domande, scegliendo la tipologia più adeguata in base alle fasi del colloquio, è un altro punto fondamentale nell’arte dell’ascolto. Infatti, preziose informazioni cliniche  vengono date dal paziente se il medico pone le domande nel modo giusto. Spesso il pudore del paziente da un lato, così come la mancanza di comprensione dei sintomi più importanti per il medico dall’altro,  celano situazioni cliniche che sono fondamentali per la scelta della migliore  terapia  per quel paziente.

 

Credo che alcuni siano gli elementi essenziali che contribuiscono ad elevare la qualità di una  visita medica: l’osservazione, l’ascolto del racconto del malato, la simpatia umana. Ovviamente tutto questo non è sufficiente se la cultura di base e l’educazione del medico non è adeguata alla patologia che si trova di fronte.

Oggi il rischio è che la visita diventi uno strumento inserito in una  catena di montaggio: i medici, compressi da problemi burocratici e non medici,  hanno  sempre più fretta e pertanto viene meno la capacità di ascolto ed osservazione e con questo  la simpatia umana si perde nel nervosismo e nella stanchezza che troppo spesso oggi affliggono il medico.

 

Alcuni semplici suggerimenti possono essere utili:

  1. Dedicare attenzione al  pazienteascoltando i suoi bisogni e la sua esperienza della malattia. Questo rappresenta un momento fondamentale di condivisione fondamentale a creare un legame col paziente per non farlo sentire solo ed aiutarlo a superare ed accettare il percorso medico diagnostico e la terapia.
  2. Aiutare il paziente a comunicare la propria storia permette di instaurare una relazione di cura e trasformare la situazione in un’esperienza costruttiva. Attraverso la medicina narrativa, il paziente ed il personale sanitario hanno la possibilità di affrontare in maniera più adeguata la malattia.

Il medico deve saper comunicare con efficacia e con chiarezza con i pazienti e con i familiari, sia nella fase diagnostica, sia in quella della comunicazione della diagnosi, con particolare riguardo alle malattie gravi ed invalidanti, con riferimento anche alle dimensioni sociali e culturali di genere.

 

In conclusione,  in poche righe desidero riportare la mia personale esperienza vissuta con i malati di Sclerosi Sistemica. Questi pazienti più che la malattia stessa, mi hanno colpito fin dal lontano 1997 quando ero una semplice  studentessa in medicina. Gli sclerodermici sono persone particolari delle quali ricordi nomi e cognomi, con i quali condividi anche le giornate a causa della loro cronicità, con le quali riesci a confrontarti e a rapportarti. In questi anni purtroppo tanti di loro ci hanno lasciato ma mantengo un loro ricordo che mi aiuta a ricordarmi dove meno sbagliare. Sono pazienti con il sorriso anche in mezzo ai mille problemi che li affliggono, sono persone che chiedono a te medico “come stai” e si preoccupano di entrare in sintonia con il medico come persona. Spesso siamo noi medici ad essere “coccolati” dai nostri pazienti con Sclerosi Sistemica.

Sono pazienti “speciali”, come dei ciclamini che in pieno inverno fioriscono e danno l’immagine positiva del grande freddo.

 

Vorrei ringraziare il mio mentore, il Prof Marco Matucci Cerinic, per avermi mostrato l’affascinante complessità di questa patologia e per avermi permesso di dedicarmi ai pazienti affetti da Sclerosi Sistemica.

Infine un ringraziamento alla Dr.ssa Silvia Bellando Randone, la collega con quale condivido questa affascinante avventura e il cui sorriso è il mio Buongiorno ogni mattina.

 

Serena Guiducci

 

Università degli Studi di Firenze

Azienda Ospedaliera Careggi

SOD Reumatologia

Direttore Prof. Marco Matucci Cerinic

Scleroderma Unit

Direttore Prof.ssa Serena Guiducci